CULTURA
di Giovanni Faverin, Patrizia Fasson, Daniela Volpato

La maternità è un’esperienza profonda e unica, ma spesso si trasforma in un percorso solitario sin dall’accesso al reparto di ostetricia.
Tra le pratiche adottate per favorire il legame tra madre e neonato, il rooming-in è stato introdotto con l’intento di incoraggiare la vicinanza costante, promuovendo l’allattamento al seno e facilitando l’instaurarsi di un rapporto affettivo. Tuttavia, molte madri si trovano a vivere questa esperienza non come un’opportunità di crescita, ma come una sfida da affrontare in solitudine. Secondo la Dichiarazione congiunta OMS/UNICEF, il rooming-in prevede che madre e bambino restino insieme 24 ore su 24 durante la degenza ospedaliera. L’idea di fondo vuole che questo modello favorisca il benessere del neonato e la sicurezza della madre, rendendola gradualmente autonoma nella gestione del piccolo.
Tuttavia, nella realtà quotidiana, la pratica si scontra con diverse criticità: la carenza di personale, la stanchezza post-parto e la mancanza di un adeguato supporto, trasformano spesso il rooming-in in una prova estenuante per le neomamme. Quello che dovrebbe essere un periodo di conoscenza reciproca e di costruzione del legame affettivo diventa, per molte donne, una fonte di stress con correlato senso di abbandono. In alcuni casi, il rooming-in è stato introdotto più come necessità organizzativa che come scelta consapevole per il benessere materno-infantile. Le madri vengono lasciate sole con i loro neonati, senza un supporto costante, con l’aspettativa implicita che “ce la debbano fare da sole”. Questo atteggiamento non solo ignora la vulnerabilità fisica ed emotiva della madre nelle prime ore e giorni dopo il parto, ma rischia di compromettere l’esperienza della maternità, trasformando un momento di gioia in una prova di resistenza. Affinché il rooming-in sia realmente efficace, è necessario un approccio più umano e consapevole, che tenga conto delle reali esigenze delle madri. Alcuni modelli internazionali offrono spunti interessanti. In Svezia, ad esempio, il personale sanitario è formato per fornire un supporto non solo pratico, ma anche emotivo, accompagnando le madri passo dopo passo nel loro percorso di adattamento. In Danimarca, le strutture ospedaliere sono state adattate per garantire stanze familiari, permettendo ai partner di essere sempre presenti e fornire un aiuto concreto. Modelli più flessibili, come quelli adottati in Canada, offrono alle madri la possibilità di scegliere un rooming-in parziale, consentendo loro di prendersi del tempo per recuperare le energie senza sensi di colpa. Il coinvolgimento attivo dei partner o dei familiari è un’altra pratica vincente adottata in Australia, dove il programma “Family-Centered Care” incoraggia la presenza del partner con programmi di formazione dedicati alla corretta assistenza nella cura del neonato durante il soggiorno ospedaliero. Anche l’Italia sta cercando di migliorare questa pratica attraverso iniziative come il Rooming-in 2.0, proposto dalla Società Italiana di Neonatologia (SIN), che punta su un’assistenza più personalizzata e discreta, capace di bilanciare autonomia materna e necessità di supporto. Iniziative simili, come le visite domiciliari post-parto adottate nei Paesi Bassi, dimostrano che offrire continuità di supporto dopo la dimissione ospedaliera può aiutare le madri a sentirsi meno sole e più sicure nella cura del neonato. Ripensare il rooming-in significa ascoltare le esperienze delle madri, riconoscere le loro difficoltà e offrire soluzioni concrete che permettano loro di vivere con serenità e consapevolezza questo delicato momento della loro vita. È necessario creare un equilibrio tra autonomia e supporto, offrendo alle madri un ambiente accogliente e rassicurante, in cui non si sentano sole, ma parte di una rete di cura e attenzione. Un approccio più umano e personalizzato è essenziale per garantire che ogni madre riceva l’aiuto di cui ha bisogno, attraverso la creazione di un ambiente ospedaliero che risponda non solo alle necessità cliniche, ma anche a quelle emotive e psicologiche, affinché il rooming-in sia realmente un’opportunità di crescita e non un ostacolo da superare in solitudine.