IL TERRORE VISTO CON GLI OCCHI DEI BAMBINI. RIFLESSIONI DI PEDAGOGIA DELL’EMERGENZA

di Giovanni Faverin, Patrizia Fasson, Daniela Volpato

 

I fatti di cronaca di questi ultimi giorni, dal terremoto in Marocco all’alluvione in Libia, la visualizzazione delle immagini di disperazione e di dolore riportate dai telegiornali e dai giornali, non possono che richiamare le molte tragedie emergenziali, compresa la pandemia da covid 19.

Eventi drammatici che continuano a susseguirsi in questi ultimi anni, fissati nella nostra memoria. Le situazioni di emergenza hanno la capacità di proiettare le persone ai confini di una pagina importante della propria vita, scaraventandole fuori dalla quotidianità; quello scorrere routinario tanto noioso quanto rassicurante. Durante il ciclo di vita è inevitabile il confronto con gli eventi traumatici. 

L’affrontare questi eventi senza gravi alterazioni del funzionamento che impattano nei contesti di vita, ci rimanda al concetto di resilienza, come presenza di disagio/trauma ma assenza di patologia.  La capacità di resilienza della persona garantisce il mantenimento di una traiettoria stabile del funzionamento psichico sebbene lo strappo esistenziale trasformi la routine in quotidianità straordinaria. Taleb parla di “Antifragilità” come opposto del concetto di fragilità, definendola come la capacità di far fronte agli eventi stressanti, non solo proteggendosi da essi, ma adattandosi in modo nuovo e migliore dalla condizione precedente. L’essere in grado di “Trasformare un limite in una opportunità”. In pedagogia dell’emergenza il ruolo dell’adulto nella relazione con il bambino è di fondamentale importanza sia nella dimensione emotiva che in quella cognitiva. Attraverso la dimensione emotiva l’adulto, instaurando con il bambino una relazione empatica, può essere in grado di modulare il vissuto emotivo e può, nella risposta ai propri bisogni e nel contenimento della sua angoscia, creare una struttura che permetta alle immagini della tragedia di essere pensate. Le immagini traumatiche non possono permanere nella mente del bambino, Bion parla di “Reverie” cioè la capacità della madre di immedesimarsi in modo empatico ed inconscio nei vissuti del proprio bambino. Durante la reverie la madre accoglie angoscia e terrore, li elabora e li trasforma, restituendoli al bambino moderati dal pensiero e dall’amore. Solo in questo modo l’immagine traumatica si sposta nella dimensione cognitiva di pensiero. Nei momenti di pericolo i bambini hanno bisogno di ricorrere alle figure di riferimento, ma se queste sono esposte allo stesso evento potrebbero rischiare di perdere la sicurezza; è necessario che l’adulto ritrovi quello spazio psicologico che fronteggiando il proprio stress,  restituisca ai figli la sicurezza emotiva necessaria. I  bambini esprimono i loro sentimenti in maniera differente rispetto agli adulti e in forme diverse anche tra di loro, soprattutto in base all’età e allo stadio di sviluppo; i bambini soffrono un po’ alla volta, le loro reazioni emotive sono discontinue e intermittenti. I bimbi possono giocare ma ad intermittenza avere altre finestre di dolore aperte che sfociano in improvvisi stati emotivi e comportamentali; a rabbia e pianto poco dopo possono non sembrare coinvolti nel dolore, tanto che l’errore degli adulti è quello di pensare di essere tornati a “tutto come prima”. Bisogna sempre ricordare che i bambini nelle emergenze sono quelli che  risentono maggiormente delle conseguenze perché  non hanno gli strumenti necessari per affrontare una crisi e i suoi effetti. Maria Montessori, sosteneva che la cura dei bambini traumatizzati richiedesse una precisa professionalità educativa. Successivamente, Andrea Canevaro sottolineava l’importanza della pedagogia attiva della partecipazione: “Le iniziative e le attività di aiuto da promuovere nelle comunità per bambini e bambine traumatizzati sono attività delicate… Perché per poter realmente aiutare a crescere, e perché l’aiuto diventi educazione – quindi reciprocità – è necessario poter ‘abitare in un ‘noi’ che permetta nello stesso tempo di non cancellare la possibilità di dire ‘io’, e di sentire la solitudine senza che questa diventi necessariamente abbandono” (A. Canevaro, 1998). Questo è lo sguardo che le istituzioni sono chiamate ad avere nella creazione di una comunità educante che sia in grado, nello sviluppo della rete territoriale dei Servizi, di fronteggiare le emergenze, supportare le persone offrendo strumenti per affrontare in modo resiliente ed antifragile il trauma, l’isolamento, le sfide della vita. La sfida sta proprio nella sinergia di tutti i livelli istituzionali del territorio,  per la ricerca del miglior progetto di vita possibile di ciascun cittadino come membro attivo di una comunità che cura e si prende cura.